Jeffrey Schnapp è un pioniere delle Digital Humanities. Nel 1999 fonda e dirige lo Stanford Humanities Lab. Dal 2011 è co-direttore del Berkman Klein Center for Internet and Society, Harvard ed è il fondatore e direttore del metaLAB, Harvard. CEO di “Piaggio Fast Forward”.

Di cosa parliamo quando parliamo di Digital Humanities: partiamo dalle origini. 
Il concetto di Digital Humanities o umanistica digitale si è imposto tra la fine degli anni 90 e l'inizio del nuovo millennio, dopo quasi mezzo secolo di dialogo fra informatica e umanistica, sulle tracce di una lunga storia di sperimentazione dove l'Italia non era affatto assente. I primissimi progetti di “contaminazione” tra informatica e studi umanistici, infatti, risalgono alla fine della seconda guerra mondiale, quando il padre gesuita Roberto Busa rimase affascinato dall'idea di sperimentare l'uso dei computer per l'analisi delle opere di Tommaso d'Aquino. Busa ha capito che i computer che riempivano delle stanze intere, i tipici mainframe computers dell'epoca, erano degli strumenti che potevano facilitare e rendere più rigorosi lavori infrastrutturali che da secoli gli studiosi avevano condotto in modo artigianale: la creazione di concordanze, indici, bibliografie, registri e così via. Da questa esperienza in poi abbiamo attraversato una serie di tappe e di fasi di evoluzione nel dialogo tra informatica e studi umanistici.

La definizione di questo spazio di sperimentazione è cambiata nel tempo: si è parlato di Humanities Computing, Computational Humanities, Humanities Informatics… e di tante altre etichette. Quello che è cambiato in tempi recenti con l'avvento della frase “digital humanities” è da un lato la crescita dell'importanza della rete come spazio di comunicazione pubblica, che ha profondamente mutato i modelli che erano prevalenti fino a quel momento, e dall'altro il passaggio che i computer stessi hanno subito: da oggetti “monomediali” legati alle scrivanie, fissi nello spazio e nel tempo, sono diventati oggetti multimediali portatili, oggetti quotidiani, fondamentali mediatori di ogni aspetto della vita delle persone.

Oggi, la stragrande maggioranza di noi porta dei piccoli computer in tasca ossia i nostri telefonini. Sono mutamenti che hanno aperto uno spazio molto più ampio per questo dialogo, ampio anche dal punto di vista del tipo di oggetti culturali che possono far parte di quest'orbita: siamo passati da esperimenti che si limitavano ad analisi di testi e inventari, all'analisi del suono, delle immagini, dei video, della multimedialità che oramai è diventata una componente fondamentale per la cultura digitale. Quindi lo spazio dell'umanistica digitale, il suo laboratorio... la sua biblioteca, diciamo, ricopre tutte le forme di cultura del nostro tempo. Oramai, i dati non solo documentano la storia delle culture, ma sono una componente basilare del patrimonio culturale stesso. 

Quale è stato il tuo percorso in questo contesto? 
Ho partecipato brevemente ad una delle tappe precedenti alle digital humanities: per un paio di anni sono stato condirettore del primo progetto digitale finanziato dal National Endowment for the Humanities, progetto che porta come titolo il “Dartmouth Dante Project” (DDP) accessibile oggi a https://dante.dartmouth.edu/. Nel corso del progetto abbiamo provato a pensare a cosa possono aggiungere i computer al nostro lavoro di ricerca in quanto medievalisti e studiosi di Dante (è questa la mia formazione). Abbiamo capito che la tradizione commentaristica della Commedia era già una specie di database “avant la lettre” e che si prestava perfettamente ad essere analizzata tramite uno strumento elettronico. Il Dartmouth Dante Project è sopravvissuto fino a oggi e rimane uno strumento fondamentale per la comunità dei medievalisti.

È stato un primo passo importante (ma non un punto di arrivo). Il pregio di questo tipo di strumenti è che rende molto più efficiente una ricerca che prima era piuttosto tortuosa: poche biblioteche hanno tutta la tradizione commentaristica a portata di mano ed è faticoso consultare decine e decine di volumi, per mettere a confronto la tradizione esegetica. Invece con il DDP si fa in modo veloce ed esaustivo. Ma, ripeto, si tratta solo di un primo passo infrastrutturale che non porta necessariamente alle questioni di alto livello che giustamente appassionano gli studiosi e gli esperti del settore. Per quanto potenti fossero questi nuovi strumenti non son mai sufficienti di per sé ed è in gran parte questo motivo che, verso la metà degli anni Ottanta mi sono fermato: non per mancanza di interesse nell'informatica, ma perché avevo la sensazione che non portavano oltre dei modelli tradizionalissimi di ricerca.

Un decennio più tardi, verso la metà degli anni 90 la situazione incominciò a mutare. Mi trovavo a Stanford, nel cuore della Silicon Valley, dove si respirava un'aria nuova: l'internet stava emergendo come una specie di vasta piazza pubblica, sia a livello locale che globale. Ed è stato in quel momento che ho capito il potenziale di sposare questi due mondi in un altro modo, più generativo e creativo, anche per affrontare l'inadeguatezza delle forme tradizionali di comunicazione scientifica nel mondo universitario e forgiare nuovi modelli di produzione dei saperi. Una cosa che ho vissuto di persona persino a Stanford, un campus noto per la sua apertura a forme di lavoro interdisciplinare, è che si parlava molto di innovazione nel settore umanistico ma spesso senza metterla in atto a livello profondo, quindi mi è capitato di voler cercare di costruire un tipo alternativo di piattaforma: un altro modo di far dialogare non solo informatica, scienze umane e comunicazione ma anche di riettere in modo creativo e sperimentale su forme di sapere nuove e/o emergenti sui confini tra arte e scienza.

È stato in questo contesto che, con alcuni colleghi, ho fondato lo Stanford Humanities Laboratory di cui sono stato direttore dal 1999 al 2009. La nostra ambizione era cristallizzata nella parola, laboratory che, come la parola latina laboratorium, suggerisce lavoro (sia mentale che manuale), sperimentazione, fabbricazione, e impegni collaborativi o di squadra. La nostra ambizione è stata di completare i modelli solitari e artigianali di produrre il sapere umanistico – che sono una forza ma anche un limite della tradizione umanistica – e di sperimentare dei modelli alternativi dove la ricerca “pura” si mescola a quella applicata, dove si affrontano problemi di ricerca al di là di ogni griglia disciplinare e dove la formazione avviene tramite la pratica. Invece di adottare un modello aulico di formazione, l'approccio aveva come obiettivo “risolvere un problema di ricerca” (problem solving) con una definizione volutamente promiscua dei frutti di questi lavori, sempre di squadra che comprendevano mostre, archivi, libri, piattaforme digitali, software, allestimenti, performances…

La formazione avveniva tramite l'esperienza vissuta per cui uno dei nostri motti è stato “sporcati le mani”; certo, approfondisci la tua expertise, diventa un conoscitore di un'area disciplinare, ma spingiti anche  al di là dei limiti di quella formazione per provare altri modelli di fare, di pensare, di produrre. Il laboratorio per noi è stato questo: uno spazio di sperimentazione di nuove modalità di ricerca, però sempre con una forte componente pratica. 

E oggi? 
Dopo quella prima esplosione della fine degli anni 90, oggi l'intera area si è moltiplicata esponenzialmente. Credo che ci troviamo più che mai davanti ad un paesaggio dove le forme tradizionali dei saperi, le discipline stesse stanno affrontando sia delle sfide sia delle opportunità veramente straordinarie, tanto che la frase “digital humanities” mi sembra da anni inadeguata.

Ci sembrerebbe strano parlare di fisica digitale, di chimica digitale o di biologia digitale. La realtà è che le metodologie e gli strumenti digitali hanno invaso tutto il campo della cultura e della ricerca scientifica. Quello che c'era di significativo nella formula digital humanities, che è sempre forte, è un invito alla sperimentazione: a sperimentare e modellare nuove forme, nuovi generi e nuove soluzioni. Ad immaginare anche nuove costellazioni che mettono insieme diverse competenze per affrontare nuove sfide.

Digital humanities ha rappresentato la definizione di un atteggiamento sperimentale, riguardo a cosa è, che forme può assumere, come si può fare ricerca nell'ambito delle scienze umane oggi. Il metaLAB di Harvard, che ho fondato nel 2011 è un po' il discendente dello Stanford Humanities Lab: c'è sempre la parola “laboratorio”, che è fondamentale, e c'è anche la parola “meta”, che suggerisce che ci posizioniamo fuori da ogni griglia disciplinare.

Ma non c'è la parola digitale: non perché il digitale non sia fondamentale, ma perché ormai è proprio l'aria che si respira. Per spiegare come ci posizioniamo, e il tipo di lavoro che facciamo in questo momento, usiamo una triplice definizione: knowledge production laboratory: un laboratorio di produzione del sapere; idea foundry, fonderia di idee, che è una metafora per indicare che siamo generatori di nuove idee, nuovi concetti, ossia sperimentiamo modelli e forme di produzione del sapere; e production studio, studio di produzione.

Noi produciamo, nel senso che siamo produttori di software, di esperienze e interventi in spazi museali, libri sperimentali... in ogni caso ci sono prodotti, deliverables. Tutto quello che può fa parte di questo desiderio di modellare il futuro dei saperi. 

Quindi la vostra esperienza è orientata ad uscire dall'ambito del sapere classico. 
Ho sottolineato l'importanza di questo filone di sperimentazione, e di ciò che si intendeva per digital humanities, che resta valido, però c'era anche un altro filone fondamentale, e che resta fondamentale: l'idea che i saperi devono anche  circolare. Non si tratta di divulgazione, nel senso tradizionale, ma significa che è importante sperimentare nuove forme, nuove modalità, nuovi luoghi di incontro con la ricerca, con il sapere, a più alto livello e anche riettendo anche sui canali, come si comunica, come viene tradotto in diverse pratiche; “tradotto” anche in senso etimologico: ovvero trasportato in luoghi inusuali. Quindi partnership con musei, biblioteche, archivi, istituzioni pubbliche, persino imprese fanno parte di questa cornice ampia. 

E di nuovo ritorna il concetto di collaborazione e contaminazione tra ambiti diversi. Come si inserisce in questo contesto la collaborazione tra pubblico e privato? Come, tra mondo accademico e privato, si possono creare sinergie in questo ambito? 
Noi abbiamo un atteggiamento esplicitamente imprenditoriale, in confronto alle tradizioni universitarie, magari questo può contrastare. Sappiamo che non potremmo mai sostenere (per non parlare di finanziare…) tutti i nostri progetti senza una rete di partnership, e senza un atteggiamento imprenditoriale. Invece di ripiegarci sulle nostre aree di expertise, spesso ci troviamo a dover affrontare aree nuove o adiacenti. Non intendo la parola “imprenditoriale” in senso finanziario, quanto per lo spirito, l'avventura di andare oltre i confini di una specializzazione per cercare aree dove convergono e interagiscono diverse competenze, diversi settori. 

Ci sono negli Stati Uniti programmi come quelli sostenuti dalla Comunità Europea? 
In realtà i modelli di finanziamento sono così diversi che è difficile paragonare la situazione europea con quella americana. In Europa c'è l'opportunità di costruire dei progetti su grande scala che noi negli Stati Uniti difficilmente riusciamo a fare, per la mancanza di risorse a livello nazionale e internazionale. La nostra tradizione finora è stata un po' stile boutique: ci sono diversi laboratori, in diverse università, che si sono costituiti e hanno elaborato un modello che poi magari è stato imitato o ripreso da altri... Ci sono alcune realtà emergenti come le Digital Public Library of America, che rappresentano su grande scala un tentativo di costruire delle piattaforme unitarie di risorse per la ricerca, ci sono alcuni progetti in Canada... Le iniziative europee hanno il potenziale di rappresentare un salto in avanti rispetto a quello che noi abbiamo potuto fare artigianalmente o in contesti più ristretti, ma è sempre presto: La rivoluzione digitale è in corso solo da mezzo secolo, un periodo breve se messo in confronto con lo sviluppo della cultura manoscritta o della stampa.